Al tempo della nascita di Dante, Firenze vive ancora sotto il peso della sconfitta di Montaperti (1260), che era stata — è vero, a stretto rigore la sconfitta non di Firenze, ma di una Parte, di una fazione della città, quella guelfa, e la vittoria dell’altra, quella ghibellina. Ma questo poco consolava i Fiorentini e amareggiava anche la Parte vincitrice. Perché la sostanza era che Firenze, quale che fosse, o guelfa o ghibellina, era caduta, in seguito a quella sconfitta, dalla sua posizione già di città egemonica in Toscana, a tutto vantaggio della rivale Siena e anche di Pisa, città ghibelline. Sfuggita all’annientamento che i vincitori non fiorentini le avevano minacciato, la città si stava riprendendo rapidamente, perché le sue energie erano grandi e non distrutte da quella sconfitta. Se si tiene presente, poi, che le lotte faziose fra guelfi e ghibellini erano a Firenze, in questo tempo, circoscritte fra gruppi magnatizi ed estranee, propriamente, alle classi popolari, le quali volevano la pace e, sperata conseguenza di questa, la prosperità, se ne dovrebbe concludere che il grosso della popolazione fiorentina dovesse rimanere indifferente all’esito di quelle lotte non sue. Ma così non era. Tutti i Fiorentini, ma specialmente quelli delle classi popolari, erano accesi da fortissimi sensi di patriottismo locale, cittadino. Le lotte faziose fra Fiorentini guelfi e Fiorentini ghibellini erano divenute una lotta fra Firenze e Siena e gli alleati ghibellini di Siena, re Manfredi innanzi tutti. Su questo punto il patriottismo cittadino s’infiammava e coinvolgeva in una stessa repulsione e condanna gli odiati Senesi e i loro complici Fiorentini. Così, per effetto di Montaperti, il guelfismo fiorentino, in quanto portatore, se pur sfortunato, della rivalità contro Siena, veniva a identificarsi col patriottismo fiorentino senz’altro, mentre un’ombra di tradimento calava sui ghibellini fiorentini, che avevano trescato con i nemici della città e che dalla sconfitta di essa avevano tratto le ragioni delle loro momentanee fortune politiche. Si aggiunga che il decennio precedente a Montaperti (1250-1260), il decennio del primo popolo, era stato il periodo del guelfismo trionfante, ma, insieme, di un governo accentuatamente popolare, di cui erano rimasti la memoria e il rimpianto. Così, sempre per effetto di Montaperti, le classi popolari vennero sempre più portate a riconoscersi nel segno del guelfismo e a vedere in esso congiunte le fortune politiche della città: un orientamento di spiriti, che dominerà per alcuni secoli la storia politica fiorentina, per cui Montaperti, una modesta parentesi nelle fortune politiche di Firenze, acquista un significato decisivo per la storia interna della città.
Dante nasce, dunque, in una Firenze ghibellina, anzi in una Toscana ghibellina, perché anche Lucca, ultimo baluardo guelfo, deve giurare fedeltà a Manfredi, nell’agosto 1264. Ma è predominio ghibellino minacciato da grosse nubi. Dai primi del 1263 papa Urbano IV comincia a mettere fuori legge i mercanti e banchieri di città ghibelline, primi i Senesi, e nel marzo 1263 anche i Fiorentini; e poco dopo (giugno 1263) il papa fa sapere di avere scelto il conte di Provenza, Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, come re di Sicilia, preannuncio, quindi, di una spedizione di lui in Italia per abbattervi re Manfredi, capo del ghibellinismo italiano. Dante nasce, quindi, in un momento in cui, per molti segni, si preannuncia non improbabile una svolta politica della città, svolta che è segnata, com’è noto, dalla sconfitta e morte di Manfredi a Benevento (26 febbraio 1266). Non consta che gli Alighieri, per quanto guelfi, avessero noie durante il dominio ghibellino: non furono cacciati né andarono spontaneamente in esilio; pare fossero tollerati, come guelfi non temibili né per potenza familiare né per combattività partigiana della casata.
Impazienze, dopo Benevento, ci furono a Firenze, per ripristinare un governo guelfo, tipo « primo popolo », ma il papa Clemente IV non le secondò, anzi le ostacolò, mirando a un governo paritetico guelfo-ghibellino. Questo carattere doveva avere il governo dei due frati gaudenti bolognesi, Catalano di Guido Malavolti e Loderingo degli Andalò, che durò meno di un semestre (maggio-novembre 1266), in mezzo a molti ondeggiamenti fra guelfi e ghibellini, questi ultimi ancora tanto forti da rifiutare al papa l’espulsione da Firenze dei cavalieri tedeschi mandati, a suo tempo, in loro aiuto da re Manfredi e da respingere il podestà nominato dal papa (ottobre 1266). Ma poco dopo una rivolta popolare, attizzata, forse, dai due frati gaudenti (novembre) travolge il debole governo paritetico e induce molti dei ghibellini a lasciare la città. Che, a coronamento della vittoria del guelfismo impersonato da Carlo d’Angiò, le classi popolari fiorentine mirassero alla restaurazione di un governo tipo primo popolo, è dimostrato dal ripristino del capitano del popolo, simbolo del guelfismo democratico. Ma il papa spera ancora in un governo paritario, a cui s’ispira una commissione di trentasei uomini, probabilmente popolari, la quale richiama in città gli esuli guelfi. Ma i più tenaci e potenti e rancorosi fra i guelfi rimangono in esilio: essi vogliono una vittoria piena, completa, un predominio assoluto della loro parte, che sperano, infatti, di ottenere da Carlo d’Angiò, nominato dal papa (10 aprile 1267) «paciarus generalis» per la Toscana. Il titolo è insidioso e può essere interpretato in vario modo: o come ufficio mirante a istituire un governo di compromissione fra le parti o a imporre la pace con un atto di forza di una parte sull’altra. È questa l’interpretazione che gli danno i più potenti fra i fuorusciti guelfi: essi, presentandosi come fautori ed esecutori della volontà del paciarus, comandati dal conte Guido Guerra dei conti Guidi, entrano nella città il 18 aprile 1267 — un anno abbondante dopo Benevento — mentre i più dei ghibellini ne escono, riparando in varie città (Pisa, Siena) e castelli, specialmente a Poggibonsi. Carlo d’Angiò è acclamato podestà di Firenze per la durata, assolutamente insolita, di sette anni. Il carattere magnatizio guelfo del nuovo governo è sottolineato dalla contemporanea soppressione del capitanato del popolo e dall’istituzione della Parte guelfa, organizzazione ristretta dei più potenti dei guelfi ritornanti e bramosi di rifarsi sui ghibellini dei danni ricevuti durante i quasi sette anni d’esilio.
Nell’autunno dello stesso anno 1267 le speranze ghibelline rinverdiscono per la venuta in Italia del giovinetto Corradino di Svevia, rivendicante per sé l’eredità del regno di Sicilia contro l’Angiò e quindi anche contro il papa, che ne ha già disposto a favore del principe francese. Nel giugno 1268 il giovane principe tedesco è accolto festosamente a Pisa e Siena, città ghibelline, e poi anche a Roma, naturalmente dalla fazione antipapaple; e presso Laterina, sulla via di Arezzo, consegue anche un certo successo militare sulle truppe angioine. Ma la sconfitta di Tagliacozzo (24 agosto 1268) e la conseguente decapitazione a Napoli troncano brutalmente le speranze che i ghibellini avevano posto sul giovane principe. La lunga vacanza papale dopo la morte di Clemente IV lascia mano libera a Carlo d’Angiò per rafforzare la posizione del guelfismo in tutta Italia, e particolarmente in Toscana. Pisa e Siena reggono malamente a questa pressione. Siena, battuta a Colle (17 giugno 1269) dai Fiorentini, che vedono in questa vittoria il riscatto dall’onta di Montaperti, deve, dopo un anno e mezzo d’incertezze e sotto la pressione di Guido di Montfort, vicario generale di Carlo d’Angiò in Toscana, riaprire le porte ai suoi esuli guelfi (agosto 1270), il che è seguito dallo spontaneo esilio dei più dei ghibellini. La stessa Pisa, roccaforte del ghibellinismo, qualche mese prima (aprile 1270) aveva dovuto — e sia pure a non troppo dure condizioni — piegarsi al guelfismo con la nomina di un podestà guelfo. L’anno 1270 significa il trionfo generale del guelfismo in Toscana (e anche altrove); ma non senza qualche resistenza ancora in località forti del contado; anche nei dintorni di Firenze gruppi di ghibellini si sono asserragliati, per esempio, a Signa, mentre cripto-ghibellini sono sospettati in Firenze stessa. Per non dire delle città tradizionalmente ghibelline: a Siena (1271) un’insurrezione popolare incendia il palazzo dei Tolomei, guelfi.
Il nuovo papa finalmente eletto, Gregorio X, riprende i tentativi di pacificazione, un po’ per paterno spirito cristiano, un po’ per non farsi soverchiare dallo strapotere di Carlo d’Angiò. A tale scopo s’incontra col re di Sicilia proprio a Firenze (giugno 1273). È probabile che Dante bambino abbia visto, in questa occasione, i due più grandi personaggi d’Italia in quel tempo. Ma il tentativo di pacificazione fra le due fazioni fallisce, per i reciproci sospetti: ciò che induce il papa (settembre 1273) a lanciare l’interdetto contro la riottosa città guelfa. A Pisa, situazione analoga, anche se di segno contrario: qui sono i ghibellini che cacciano dalla città i capi guelfi, Giovanni Visconti, giudice di Gallura, e il suocero di lui Ugolino della Gherardesca (luglio 1274), ciò che provoca azioni di guerra, in genere fortunate, della lega delle città guelfe toscane contro Pisa, sicché questa deve riprendersi i guelfi espulsi (luglio 1276). Anche a Siena, il governo dei Trentasei, espressione della grassa borghesia mercantile e bancaria,, assume un carattere accentuatamente guelfo (maggio 1277). Dopo questa scossa, nel 1278, il predominio guelfo in Toscana è ristabilito e restaurata la pace, almeno in apparenza, ché gli esuli ghibellini non si danno ancora per vinti. Onde il nuovo pontefice, Niccolò III, riprende in Toscana e fuori di Toscana un vasto tentativo di pacificazione generale, valendosi del congiunto, il cardinale Latino Malabranca. Anche Firenze, ovviamente, entra in quest’azione papale, con risultati, almeno in apparenza, positivi: la pace del cardinale Latino (febbraio 1280) introduce — col rientro di una parte dei ghibellini fuorusciti (non tutti accettarono di tornare) uno dei soliti governi paritetici, accompagnato dalle solite scene pubbliche di pacificazioni e conseguenti maritaggi, cioè il governo dei Quattordici buoni uomini, dato che la podesteria di Carlo d’Angiò, divenuta decennale, era scaduta l’anno prima.
Ma non era la pace interna: magnati guelfi e magnati ghibellini si azzuffavano di continuo e costituivano un motivo permanente di turbamento della tranquillità pubblica, a cui era sensibile particolarmente la classe media e popolare, produttrice e lavoratrice, estranea alle rivalità fra le grandi casate. Già nel 1281 il governo dei Quattordici impone malleverie ai magnati come garanzia della pace interna. L’insurrezione siciliana dei Vespri (31 marzo 1282) rinfocola anche in Toscana le speranze ghibelline; il che vuol dire, a Firenze, accentuarsi delle lotte fra magnati; onde la decisione delle classi medie e popolari, organizzate nelle arti, d’istituire, dapprima accanto al debole governo dei Quattordici, poi come unico governo, un reggimento di loro espressione, prima di tre, poi di sei priori delle arti, se non proprio apertamente antimagnatizio, diffidente molto verso i magnati (giugno 1282); priori affiancati da un « difensore delle a.rti e degli artefici », comandante delle compagnie armate popolari distinte per gonfaloni (suddivisioni entro i sesti della Città). Quattro anni dopo (ottobre 1286) sono estesi i poteri del <(difensore contro le prepotenze dei magnati a danno degli artigiani popolani e <(parte debole «, prepotenze nelle quali si era distinto particolarmente il magnate Corso Donati. L’allargamento democratico della base del governo dei priori si annuncia anche, dalla metà del 1287, con l’apertura, nei consigli del comune, anche ai rappresentanti delle cinque arti medie (12 con le 7 arti maggiori). La tensione fra magnati e popolani si attenua poi di fronte alla tensione Firenze-Arezzo, dove il vescovo Guglielmo degli Ubertini, ghibellino, ha in mano il potere. Il governo dei priori fiorentini, dapprima incerto — incerto anche perché una guerra esterna accresce internamente il peso dei magnati, in quanto costituenti il nerbo, come cavalleria, delle forze militari comunali — apre poi la ostilità contro Arezzo, facendosi forte anche degli aiuti dati dalla lega guelfa toscana e anche di aiuti bolognesi. La battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), alla quale prende parte anche il giovane Dante, nelle file dei feditori, è una schiacciante vittoria fiorentino-guelfa, alla quale, però, non seguono risultati politici rilevanti. Questa guerra e ancor più la successiva contro Pisa mettono in luce le gravi disfunzioni e corruzioni nell’amministrazione finanziaria del comune. Cercano di porvi rimedio le «provvisioni canonizzate » del settembre 1289. Ma il malessere rimane: le arti maggiori, esponenti dei ceti affaristici fiorentini, si premuniscono contro le resistenze del ceto operaio sottoposto alle arti. Ma nello stesso tempo tutte le 21 arti, quindi anche le arti minori, sotto l’impulso di Giano della Bella, ricco mercante, non per posizione sociale, ma per sentimento, più vicino ai popolani che non ai magnati, concorrono, con gli Ordinamenti di Giustizia del 18 gennaio 1293, a stabilire una legislazione intesa a fissare la minorazione giuridica delle casate magnatizie, specificamente elencate, imponendo il principio della corresponsabilità collettiva delle casate per gli atti di violenza commessi dai loro membri e obbligandole a, rendersi mallevadrici (legge del sodamento) per danni recati a popolani, ed escludendo i magnati dai consigli cittadini e dalle più alte magistrature. La casata degli Alighieri, per quanto nobile per lignaggio, non è iscritta per il suo mediocre peso e prestigio economico e politico, fra le magnatizie. Dante può quindi sedere nei consigli della città. Non si sa quale giudizio egli formulasse, fino a questo momento, quando era vicino alla trentina, sulla politica cittadina, alla quale sembra ancora estraneo, tutto versato negli studi filosofici e letterari, nelle tenzoni poetiche. Non pare che abbia alcun significato politico la conoscenza, che egli fece in questo tempo a Firenze (marzo 1294), col giovane principe angioino Carlo Martello, che andava ad assumere la contrastata corona ungherese.
I più violenti e facinorosi fra i magnati mordono il freno: Corso Donati, autore di violenze contro un consanguineo ma anche contro un popolano, è, tuttavia, assolto da un compiacente giudice del podestà (gennaio 1295). Ciò provoca l’indignazione popolare, che si dà a tumulti e incendi, invano contrastati dallo stesso Giano della Bella, che paga questo suo atteggiamento di pacificatore col tramonto del suo astro di agitatore popolare. Un priorato a lui nemico lo condanna come seminatore di discordie e come contravventore agli stessi Ordinamenti di Giustizia da lui introdotti (18 febbraio 1295). Ed egli lascia la città. Ne traggono motivo i magnati per tentare la rivincita (luglio 1295): non riescono a ottenere l’abolizione degli odiati Ordinamenti, ma sì, almeno, una loro sensibile attenuazione: tra l’altro, furono ammessi al priorato anche coloro — purché non magnati — che fossero semplicemente iscritti a un’arte, anche non esercitandola di fatto. Che fu il caso di Dante, iscritto all’arte dei medici e speziali.
Il quinquennio 1295-1300, durante il quale Dante comincia a prendere parte alla vita politica cittadina, fu, relativame
nte, abbastanza tranquillo, almeno in superficie; ché, sotto sotto, covavano fermenti di future e non lontane agitazioni. A parte contrasti minori, questi fermenti si alimentavano della rivalità fra le due casate magnatizie dei Donati e dei Cerchi, attorno alle quali si venivano schierando, rispettivamente, non soltanto le casate amiche magnatizie, ma anche — diversamente da ciò che era avvenuto per le lotte guelfi-ghibellini elementi della grassa e media borghesia, giù giù fino alle classi popolari, con attiva partecipazione anche degli ecclesiastici. Vi s’intrecciavano i motivi più vari, non tutti riconducibili a interessi di classe: contrasti fra nobili vecchi (i Donati) e nobili nuovi (i Cerchi); rivalità d’interessi finanziari orbitanti, in contrasto, attorno alla corte e alle finanze papali; odi familiari accumulatisi per ragioni di matrimoni contrastati o rotti, con conseguenti liti patrimoniali ereditarie; incompatibilità fra la sprezzante alterigia, la spregiudicatezza morale, la figura tuttavia affascinante di un Corso Donati da un lato, e la figura dimessa, incerta, piuttosto prosaica, di un Vieri de’ Cerchi, entrambi rivaleggianti per acquistarsi e mantenersi il favore popolare. Inoltre le lotte feroci apertesi fra i guelfi pistoiesi, divisi tra le fazioni dei Neri e dei Bianchi, si trasferiscono, con i loro nomi, a Firenze, nel senso che i Donati e consoci prendono le parti dei Neri, e i Cerchi e seguaci quelle dei Bianchi. Negli ambienti popolari, contro queste tensioni fra i gruppi magnatizi rivali, che minacciano di coinvolgere tutta la città, si auspica un ritorno di Giano della Bella, evidentemente come strumento di un’applicazione rigorosa degli Ordinamenti di Giustizia; ma papa Bonifacio VIII, sapientemente lavorato dai banchieri fiorentini di Parte nera, residenti in corte di Roma, si oppone al ritorno del capopopolo fiorentino, dipinto come seminatore di discordie e pietra di scandalo, forse posseduto dal demonio (gennaio 1296). Basta un nulla per far scoppiare degl’incidenti, per correre al sangue; così, nel dicembre 1296, durante una veglia funebre in casa Frescobaldi. Gli animi sono divisi anche di fronte alle sempre maggiori pretese del papa Bonifacio VIII, che intende il guelfismo come sostegno alla sua politica contro i Colonna, politica più della sua casata Caetani che della Chiesa; ma infine, pur fra contrasti, il Comune fiorentino accorda al papa gli aiuti militari in questa sua vera e propria crociata contro la casata rivale. I priori penano a tenersi al di sopra della mischia civile. Nel dicembre 1298, in seguito a un ennesimo scontro fra Donateschi e Cerchieschi, ricorrono a condanne poco efficaci, che colpiscono le due parti; poco efficaci anche perché si delinea sempre più chiara la protezione che i Neri hanno da parte del pontefice, e in uno scandaloso processo contro Corso Donati, anche da parte del giusdicente, il podestà Monfiorito da Coderta (marzo-maggio 1299). L’indebolimento della Parte dei Cerchi va di pari passo con l’attenuazione degli Ordinamenti di Giustizia: nell’aprile 1299 le penalità da essi previste sono ridotte a un ventesimo, ma poi, dopo il processo contro il Monfiorito, sono ripristinate.
La protezione che il papa accorda ai Neri risulta evidente da un’inchiesta condotta a Roma da un’ambasceria guidata dal causidico Lapo Saltarelli. I compromessi, tutti di parte donatesca, sono condannati (aprile 1300), ma il papa esige la cassazione della sentenza; non l’ottiene, perché il comune non ammette l’ingerenza papale in questioni non ecclesiastiche della città. Ne segue una forte tensione fra il governo fiorentino e il pontefice, tensione che, tuttavia, il priorato in carica cerca di non portare agli estremi, tant’è vero che si adopera presso gli altri comuni membri della « taglia » (lega) guelfa perché aumentino il loro contributo militare a pro’ dell’impresa che Bonifacio VIII sta conducendo contro gli Aldobrandeschi di Maremma, nell’interesse più di casa Caetani che della Chiesa. Dante, per incarico dei priori, compie questa missione presso il comune di San Gimignano (maggio 1300) e forse anche presso altri della Valdelsa. Il momento è molto difficile, grandi l’incertezza e il sospetto circa i fini ultimi della politica papale rispetto a Firenze: se mirino — come sembra evidente — a mettere al governo della città i Neri, per farsene uno strumento, o anche ad assoggettare addirittura la città e la Toscana al potere papale (o di casa Caetani), approfittando dell’incerta situazione giuridica, essendo l’Impero, se non vacante, tenuto da un re dei Romani (Alberto d’Austria) non ancora confermato. Per porre riparo ai pericoli del momento, i priori fanno approvare dai consigli inasprimenti delle pene contro gli attentatori alla pace pubblica e, prendendo motivo da nuovi tumulti e per mostrarsi superiori alle parti, mandano ai confini (maggio 1300) tanto Neri quanto Bianchi (fra questi Guido Cavalcanti). Ma questi ultimi sono riammessi nel luglio successivo, dal priorato di cui fa parte Dante. Non sono provvedimenti che possano disarmare il pontefice. Questi, in un breve al vescovo di Firenze, anticipando la Unam sanctam, proclama la superiore autorità papale su tutti gli uomini (15 maggio 1300) e manda a Firenze come suo legato il cardinale Matteo d’Acquasparta, a chiedere balia (cioè i pieni poteri) per pacificare le parti. La pretesa, pur tra forti opposizioni, fra le quali si può congetturare anche quella del priore Dante Alighieri, viene accolta (27 giugno 1300); ma quando il cardinale propone un nuovo sistema di elezione dei priori che avrebbe favorito i Neri, i priori si rifiutano di presentare la proposta ai consigli, come pure si rifiutano di aprire un processo contro Lapo Saltarelli. I magnati Neri, imbaldanziti, arrivano al punto di malmenare alcuni delle capitudini delle arti. Per ritorsione, un fanatico tira un colpo di balestra, fallito, contro il cardinale, mentre i priori, viste le mire papali, stringono col comune guelfo di Bologna un trattato apparentemente anodino, di « fratellanza, unità e associazione »; in realtà contro le mire papali. Scaduto il priorato di Dante (14 agosto 1300), il cardinale, alla fine di settembre, nulla avendo ottenuto, lascia la città e scaglia l’interdetto contro i suoi governanti. Nel novembre il papa sembra ammansito: per l’intervento di membri della lega guelfa (bolognesi, lucchesi, senesi, ecc.) si piega a sospendere, temporaneamente, l’interdetto.
Ma i pericoli per l’indipendenza di Firenze e per la sorte dei Bianchi sorgono da un’altra parte: si annuncia prossima la venuta in Italia e in Toscana di Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello, con lo scopo dichiarato di aiutare gli Angioini a recuperare la Sicilia a sé e alla Chiesa, ma con oscuri progetti sulla Toscana. Egli vi giungerà soltanto nell’agosto del 1301, evitando Firenze, e proseguendo poi per Anagni, dove soggiorna il papa. Il governo fiorentino, in cui prevalgono i Bianchi, non vuole certo prendere di petto il principe francese né irritare maggiormente il papa; anzi, fa un donativo di 5800 formi per sovvenzionare la guerra del papa e di Carlo Il d’Angiò contro la Sicilia, accede alle richieste papali di concorrervi con propri contingenti militari; misura contro la quale invano Dante protesta (marzo-giugno 1301) e, ancora, manda, a sue spese, dei cavalieri assoldati a combattere per il papa contro gli Aldobrandeschi. Ma nello stesso tempo, per premunirsi contro il Valois, consolida con un nuovo prestito forzoso le finanze comunali e si abbandona ad atti contraddittori, che distruggono ogni buona volontà di rabbonire il papa. Così a Pistoia, presidiata da milizie fiorentine, fino a questo momento neutrali tra le fazioni locali dei Bianchi e dei Neri — scoperta una congiura dei Neri pistoiesi — il capitano fiorentino Andrea dei Gherardini, annuenti i priori bianchi di Firenze, fa entrare in città i fuorusciti ghibellini e ne scaccia i Neri, inaugurando contro di essi una vera persecuzione (maggio 1301). Non basta: nel mese seguente
, a una richiesta dei Neri fiorentini che anche i loro esiliati fossero richiamati in patria, com’erano stati richiamati i Bianchi, il governo sembra accedere, a patto che i Neri disarmino. Ma ottenuto ciò, li soverchia con il concorso di rinforzi bolognesi e li costringe alla fuga, cioè a riunirsi con i fuorusciti Neri di Pistoia. Perciò non ottiene alcun risultato un’ambasceria di Bianchi fiorentini presso il papa ad Anagni, alla quale partecipò anche Dante (settembre 1301). Proprio ad Anagni, in concistoro, Bonifacio VIII proclama Carlo di Valois (5 settembre 1301) paciaro in Toscana fra Bianchi e Neri, rettore della Romagna, della Marca di Ancona, del ducato di Spoleto e capitano generale di tutto il territorio ecclesiastico. Ma come avrebbe esercitato questi poteri così ampi il principe francese rispetto a Firenze e alla Parte bianca? Gl’indizi erano preoccupanti. Egli era circondato da esuli Neri, potenti in corte papale e da uomini d’affari spregiudicati come un Musciatto de’ Franzesi.
I priori, anche su conforme parere delle arti, non ebbero l’ardire d’impedire l’ingresso in Firenze al Valois, il quale, infatti, vi entrò, il lo novembre 1301, con una scorta non numerosissima di armati. Il passo fatale era fatto: non si verificò, infatti, a Firenze ciò che si verificherà invece, fra non molto, nella molto più piccola Pistoia, la quale chiuse le porte in faccia al principe francese e resisté ai Neri per ben quattro anni e mezzo. Una grande adunata del popolo fiorentino a parlamento, indetta dai priori, attribuiva al Valois i pieni poteri che egli chiedeva come paciaro papale (5 novembre 1301); ma contemporaneamente il capo più violento e audace dei Neri fuorusciti, Corso Donati, era lasciato entrare nella città, dove, con i suoi seguaci, istituì un regime di terrore, dandosi agl’incendi contro i nemici Bianchi. Per sei giorni (5-10 novembre 1301) la città è in balia di questi scatenati, contro i quali, evidentemente protetti dal Valois, nulla possono i priori, fra i quali Dino Compagni: essi finiscono col dimettersi (7 novembre) e passano i poteri — se così si può dire — a un priorato composto di soli popolani, i quali abbandonano i Bianchi al loro destino. Il nuovo podestà nominato dal Valois, l’eugubino Cante de’ Gabrielli, prosegue, sotto colore di apparente giustizia, l’azione persecutrice contro i Bianchi. Il rivolgimento nella situazione fiorentina è tale, e tale il tremore per le violenze dei Neri, che il 24 novembre il consiglio dei Cento autorizza i priori a fare a Carlo di Valois un ricco donativo a titolo di riconoscenza per ciò che il paciaro aveva fatto a pro’ della città. Tornò a Firenze anche il cardinale Matteo d’Acquasparta, anche lui con l’ipocrita veste del paciaro. Ma i Neri, imbaldanziti, si rifiutarono di spartire gli uffici con i Bianchi, mentre il terribile podestà Cante de’ Gabrielli continuava a infierire con condanne contro i Bianchi, presenti o contumaci, fra questi ultimi anche Dante (gennaio 1302).
Ma la partita, nonostante l’errore di avere ammesso il Valois nella città, non è ancora definitivamente decisa: oltre che a Pistoia, resistono gagliardamente nei castelli del contado i Bianchi fuorusciti. Essi non rifiutano l’alleanza con casate spiccatamente ghibelline, anzi tradizionalmente avverse al comune fiorentino, residui di tempi feudali tramontati (Ubertini, Pazzi di Valdarno, Ubaldini, alcuni rami dei conti Guidi): ciò che li compromette, inevitabilmente, agli occhi dei popolani fiorentini, radicalmente guelfi e gelosissimi delle libertà comunali. I Neri, trionfanti, non rifuggono da mezzi sleali per inasprire, se ce n’era bisogno, Carlo di Valois contro i Bianchi superstiti a Firenze: inventano una congiura che sarebbe stata tramata dai Bianchi per uccidere il Valois. È il principio di una nuova ondata di persecuzioni e condanne contro i Bianchi (più di mezzo migliaio di condanne, le più alla pena capitale, ma le più in contumacia). Per organizzare la difesa e, se possibile, il ritorno in patria con le armi, convengono a San Godenzo, sulla via fra Firenze e le Romagne, i capi della Parte bianca in esilio e capi ghibellini. V’intervenne anche Dante (fine giugno-primi luglio 1302). Ma l’azione loro si sperperò in minuti scontri, talora anche vittoriosi per i Bianchi (l’ostinata difesa di Montaccianico nell’alto Mugello). In realtà, l’unico punto forte dei Bianchi è ancora Pistoia. Il Valois, ottenuto il suo scopo e largamente foraggiato di donativi dai Neri fiorentini, si disinteressa oramai delle cose toscane e italiane, e anche per le complicazioni sorte fra il fratello Filippo il Bello di Francia e il papa, lascia Firenze e se ne torna in patria (dicembre 1302).
La lotta fra i fuorusciti Bianchi, uniti con i ghibellini toscani, e il comune di Firenze, guelfo nero oramai, che dapprima aveva fatto capo anche ad Arezzo e al Valdarno superiore, si sposta poi, per il dubbio atteggiamento del podestà aretino Uguccione della Faggiuola, nell’Appennino fiorentino e romagnolo e fa centro da un lato su Pistoia, dall’altro su Forlì, dove il capo ghibellino Scarpetta degli Ordelaffi è nominato capo militare della università» (cioè comune) che i fuorusciti hanno organizzato in esilio (gennaio 1303). Nel maggio 1303 l’organizzazione si estende fino a comprendere, oltre Pistoia, Forlì, Faenza, Imola, Bagnacavallo, Cesena, i da Polenta signori di Ravenna. Ma non per ciò ne risulta sensibilmente diminuita la posizione di Firenze, che si vale dell’alleanza di città toscane (Lucca, Siena) e in Romagna degli Estensi signori di Ferrara. Per il gioco delle tradizionali rivalità fra città vicine, le lotte fiorentine si sono così dilatate a lotte coinvolgenti Toscana e Romagna. Per lungo tempo le sorti rimangono incerte e possono non essere infondate le speranze degli esuli fiorentini di tornare in patria, tanto più che il gruppo dominante dei Neri si è scisso e l’ambizioso Corso Donati trama con i superstiti magnati Bianchi rimasti a Firenze e da buon demagogo agita il basso popolo contro la grassa borghesia dominante. L’agitazione promossa da Corso Donati è giudicata dal governo così pericolosa che, per consiglio di un ex aderente del Donati, Rosso della Tosa, invoca l’opera pacificatrice di una delegazione lucchese (fine 1303). La quale, però, non riuscendo a combinare nulla, è sostituita, qualche mese più tardi, dal legato cardinale Niccolò da Prato, inviato da papa Benedetto XI. Ma anch’egli raccoglie magri risultati, perché i suoi tentativi di pacificazione sono sabotati da Corso Donati e da Rosso della Tosa, almeno su questo punto concordi, di non cedere nulla del loro potere dispotico ai Bianchi, contro i quali riprendono con violenza inaudita le soperchierie, le uccisioni, gl’incendi, le distruzioni delle case (aprile 1304). Come già il suo predecessore d’Acquasparta, anche il cardinale da Prato abbandona la città lanciando l’interdetto.
Era evidente che solo una vasta congiura o rivoluzione filo-bianca in Firenze, combinata con una sorpresa dall’esterno, avrebbe potuto mutare lo stato delle cose nella città. E la sorpresa esterna fu tentata, ma senza un’adeguata intesa interna: il 20 luglio 1304 i fuorusciti Bianchi, riunitisi alla Lastra, a qualche miglio da Firenze sulla via bolognese, insieme con i ghibellini di Arezzo e di Romagna, riuscirono a penetrare di sorpresa per una porta della città, ma non vi trovarono sostegno interno e dovettero ritirarsi. Fu un colpo grave alle loro speranze; più grave ancora fu, nell’aprile 1306, la resa della bianca » Pistoia.
Appartiene alla biografia di Dante, non alla storia di Firenze, il giudicare, o piuttosto il cercare d’indovinare, quali riflessi avessero su di lui questi avvenimenti che gli precludevano di tornare dignitosamente in patria, o per un atto di giustizia e di grazia, e si direbbe di riparazione, dei governanti fiorentini — come egli avrebbe preferito — o per un capovolgimento della situazione politica, in altre parole, per un ritorno armato e vittorioso dei Bianchi al potere. Questa seconda eventualità, dopo la resa di Pistoia, sembrava sempre più allontanarsi. Si può, ragionevolmente, supporre che la frattura avvenuta fra i Neri fiorentini, per le manifeste ambizioni signorili di Corso Donati, alimentasse qualche speranza fra gli esuli Bianchi, ma questa poi non si realizzò: la tragica fine del » barone» (6 ottobre 1308), tramante, col suocero, il capo ghibellino Uguccione della Faggiuola, contro l’oligarchia nera capeggiata da Rosso della Tosa, seppellì anche questa eventualità. Ancora una volta la manifesta complicità del Donati con i ghibellini aveva schierato contro di lui, unitamente, l’oligarchia nera e le classi popolari.
Non è il caso, qui, di ricordare tutte le vicende politiche che Firenze attraversò fino alla morte di Dante. È evidente che possono avere un’attinenza con Dante solo quelle che potevano, in ipotesi, aprirgli la via del ritorno nella sua città: cioè un indebolimento o, addirittura, la caduta della Parte nera. Ma nessuno degli eventi fiorentini fino alla venuta di Enrico VII poteva essere interpretato in tal senso. La stessa distinzione fra Bianchi e ghibellini si era, praticamente, stemperata, fino quasi ad annullarsi in un’unica avversione al governo guelfo di Firenze. E anche su un piano generale della politica italiana non si poteva dire che il guelfismo avesse avuto gravi scosse, che si potessero ripercuotere sull’interna politica fiorentina. I maneggi di Pisa ghibellina con il re d’Aragona non approdarono a nulla; il guelfismo si affermò a Ferrara nella lotta contro Venezia (agosto 1309); un colpo di mano di fuorusciti Bianchi e ghibellini su Prato (aprile 1309) ebbe successo, letteralmente, solo per una giornata; la scacciata dei guelfi da Spoleto fu largamente compensata dalla vittoria dei guelfi umbri e anche fiorentini contro Todi ghibellina (settembre 1310) e dalla vittoria degli stessi Fiorentini contro gli Aretini uniti ai Bianchi fiorentini, sotto Cortona (febbraio 1310).
Per ben altra via la situazione poteva mutare a favore degli esuli Bianchi, e cioè per effetto dell’annunciata venuta in Italia del nuovo re dei Romani Enrico VII di Lussemburgo, già riconosciuto come tale dal papa Clemente V, e perciò in aspettativa di ricevere a Roma l’incoronazione imperiale. Il 3 luglio 1310 era giunta anche a Firenze un’ambasceria di Enrico VII, nella quale era compreso anche uno dei Bianchi esuli da Pistoia, a protestare contro le azioni dei Fiorentini a danno delle città fedeli all’Impero e a esigere la cessazione delle ostilità e l’invio a Losanna, per i primi dell’autunno, dei delegati a prestare giuramento al nuovo sovrano. Il governo fiorentino non si piegò a nessuna delle richieste; solo sospese, momentaneamente, le ostilità contro Arezzo, ma allargò e approfondì le intese, già predisposte fin dal marzo, con le città guelfe di Toscana e di Romagna.
Ma il punto capitale era l’atteggiamento del pontefice, in Avignone, il quale, finora, si era mostrato piuttosto favorevole alla venuta di Enrico VII in Italia, dato che il re si presentava, oltre che genericamente pacificatore, anche come restauratore del potere papale nelle terre della Chiesa. Un’intesa sincera e fattiva fra il pontefice ed Enrico VII sarebbe stata estremamente pericolosa per il governo nero di Firenze: onde ogni sforzo per infrangere quell’intesa, che era vista con altrettanto sospetto da Roberto d’Angiò, re di Napoli, come quella che avrebbe posto fine al predominio angioino in Italia, identificantesi con quello del guelfismo. Perciò, sulla fine del 1310, fu mandata ad Avignone un’ambasceria fiorentina, la quale lavorò molto bene quell’ambiente, in cui anche la finanza fiorentina aveva molto peso, mentre già nel settembre (1310) re Roberto era venuto a Firenze e nelle altre città guelfe toscane, non solo per discettare di teologia dal pulpito di Santa Maria Novella (il re da sermone, Par. VIII 147), ma anche per conversazioni sui problemi politici che la prossima venuta di Enrico VII in Italia poneva, unitamente, al re di Napoli e al comune di Firenze, benché, in questo tempo, il re tenesse ancora segrete trattative, tramite Avignone, con Enrico VII, anche in vista di possibili combinazioni matrimoniali. E a ogni buon conto, Firenze portò avanti sollecitamente il compimento della terza cerchia di mura della città. Nell’ottobre 1310 Enrico VII entrava in Italia con una scorta di truppe assolutamente inadeguata agli alti compiti che si proponeva: di fare opera di pacificatore al di sopra delle parti; di piegare le eventuali resistenze; di restaurare l’autorità imperiale anche nell’ambito di poteri caduti da tempo in oblio. Anche con forze ben superiori, un programma utopistico o realizzabile solo per brevissima durata, perché in contrasto con tutta la situazione reale in Italia, caratterizzata dalle oramai radicate autonomie cittadine anche in citta sedicenti ghibelline ma per le quali quell’insegna imperiale serviva solo come punto di riferimento per riscuotere appoggi contro città rivali, sedicenti guelfe, non per consentire a un’effettiva diminuzione delle proprie autonomie. E invece il « novello Cesare i, nella sua follia di restaurazione di diritti formali, che due secoli e più di storia avevano seppellito, mirava proprio a restringere, se non ad abolire, le autonomie comunali. Riguardo a Firenze, in elenchi di rivendicazioni tenuti segreti dalla cancelleria imperiale, l’Impero si riprometteva di staccare dal dominio comunale e di sottoporre al diretto dominio e amministrazione imperiali ben 158 castelli e 60 comunità rurali. Questo, Dante e i Bianchi esuli entusiasti di Enrico VII non lo sapevano; ma che l’affermazione dell’autorità imperiale si sarebbe accompagnata con un’umiliazione del comune sembrava indubitabile per troppi segni. La pacificazione, l’estirpazione delle fazioni, ammesso che si potesse realizzare, sarebbe stata pagata a ben caro prezzo.
L’esperienza fatta già ai primi passi in Italia avverti Enrico VII che la sua posizione di sovrano imperiale, superiore alle parti, era insostenibile; che per ridurre i riottosi, di qualsiasi parte fossero, doveva appoggiarsi sulla parte opposta. Fuorusciti Bianchi fiorentini accorsero in gran numero presso il sovrano e ne ebbero onori e uffici a corte e in città disposte ad accogliere le autorità imperiali; e naturalmente, erano presso il sovrano ispiratori di vendetta e rivincita contro la loro città. In Toscana, fra i grandi comuni, solo quelli di Pisa e di Arezzo erano partigiani dichiarati di Enrico VII. Dopo la sua incoronazione a re d’Italia a Milano (6 gennaio 1311) parve che il re volesse scendere direttamente su Firenze; ma poi, rivolgimenti a Milano, la resistenza di Cremona, il lungo assedio di Brescia lo trattennero nell’ Italia settentrionale fino all’autunno del 1311, con grande impazienza dei fuorusciti Bianchi, fra cui Dante, e grande soddisfazione di Firenze, per la quale ogni ritardo del re dava maggiore possibilità di preparare la difesa sul piano diplomatico e militare. Il re svernò a Genova, molto diminuito nelle sue forze militari per una violenta pestilenza e per la diserzione dalla sua causa di parecchie città padane, Parma innanzi tutte, che dapprima avevano aderito a lui. Anche le promesse a suo favore, raccolte da suoi ambasciatori fra minori città e signori feudali toscani, erano piene di riserve e poco consistenti. Tuttavia le misure per la difesa a Firenze continuarono; e fra esse va ricordata, alla fine del 1311, l’amnistia (la cosiddetta « riformagione di Baldo d’Aguglione » dal nome del giurista che le dette veste formale) accordata ai meno compromessi fra i guelfi bianchi (non ai membri di famiglie ghibelline) e ispirata da un lato all’intento di diminuire il numero dei nemici e dall’altro a quello di ricavarne un cespite per le finanze comunali, visto che l’amnistia era subordinata al pagamento di una penale. Fra i circa 1500 esclusi dall’amnistia ci fu anche Dante, non perché di famiglia ghibellina, che non era, ma perché, con gli scritti, eloquente fautore del re tedesco. La messa al bando di Firenze, proclamata solennemente a Genova da Enrico VII il 24 dicembre 1311, se ebbe, certamente, dei riflessi dannosi per il commercio dei Fiorentini, non ne scosse la volontà di resistenza né fece il vuoto attorno alla città né le tolse alcun alleato; anzi, contribuì a stringere ancora più le forze della lega guelfa tsco-romagnola-lombarda, certamente superiori a quelle del re, ridotte a non più di 1500 cavalieri, anche se a Pisa, dove il re era venuto nel marzo (1312), notevolmente accresciute dall’apporto di esuli o comunque partigiani ghibellini. Pisa fu allora, nella primavera del 1312, affollata di ghibellini accorsi da ogni parte attorno al re, da cui speravano o vendetta o giustizia o, comunque, il ritorno in patria. In questa folla anche Dante. Ma anche se rinvigorite dal concorso dei Pisani e dei fuorusciti ghibellini, le forze di Enrico VII non erano tali da fargli sperare di piegare Firenze: un’infelice puntata su San Miniato (primavera 1312) gli tolse ogni velleità in questo senso e lo convinse ad affrettarsi verso Roma lungo la Maremma per cogliervi lo scopo primo della sua venuta in Italia, la corona imperiale. Il pericolo si allontanava da Firenze, ma in altro senso si aggravava, perché Enrico VII, una volta consacrato dal titolo imperiale, avrebbe esercitato una presa più profonda sull’animo dei contemporanei, non ancora insensibili essi — ma non gli spregiudicati mercanti fiorentini — al prestigio morale di quel titolo.
Come, fra molti contrasti, si giungesse alla cerimonia dell’incoronazione, non in San Pietro, ma in San Giovanni in Laterano, il 29 giugno 1312, è storia non di Firenze, ma, principalmente, dei rapporti fra Enrico VII e Roberto d’Angiò. Ma non senza riflessi anche sulla storia fiorentina, perché vi si rilevò che il papa aveva cessato di fare causa col Lussemburghese e pur con molte cautele e infingimenti, era passato dalla parte dell’Angioino. Lo scopo primo della politica fiorentina, di rompere l’intima intesa fra papa è candidato imperatore, aveva avuto pieno successo. L’imperatore era ora ridotto alle sue sole forze e a quelle dei suoi seguaci e si era scoperto in piena luce l’antagonismo imperiale-angioino, a tutto vantaggio dei Fiorentini, i quali, mandando truppe mercenarie e cittadine a Roma, contribuirono efficacemente alla resistenza di Giovanni di Gravina, fratello di Roberto d’Angiò, contro Enrico VII, e a indebolirne le forze.
Era, tuttavia, prevedibile che l’imperatore avrebbe tentato di punire la tracotanza fiorentina, che era una sfida alla sua autorità. Dopo un soggiorno di due mesi a Tivoli, lentamente egli si avviò verso la Toscana, facendo Arezzo, fedelissima ghibellina, centro per le sue operazioni. Il 12 settembre 1312 entrava in territorio fiorentino, vincendo resistenze di retroguardia dei Fiorentini nel Valdarno superiore, e il 19 investiva la città, ma non con un assedio completo, perché non aveva forze abbastanza per bloccare la città in tutto il suo circuito. Quasi tutti gli esuli ghibellini e moltissimi guelfi bianchi — se è ancora ammissibile questa distinzione — si erano dati convegno nel campo dell’imperatore e agognavano di entrare con le armi in mano nella città ch li aveva cacciati. Dante non fu tra costoro; e perché non ci fu, è cosa che riguarda la sua biografia, non la storia di Firenze. Il pericolo per la città era, certo, grande e la sorpresa piena, perché non si era prevista un’avanzata così rapida dell’imperatore dopo la sosta estiva, né, tranne un contingente senese, erano ancora giunti i rinforzi di fuori, chiesti fino dai primi di settembre. Non tentato nemmeno, da parte dell’imperatore, un attacco di sorpresa, Firenze ebbe il tempo di raccogliere a difesa truppe a cavallo e a piedi certamente in numero superiore a quello di cui poteva disporre l’imperatore. In tutti era chiara la consapevolezza che si giocava la carta decisiva per il guelfismo; ma contro le impazienze dei più animosi, fra i quali erano lo stesso vescovo di Firenze, e molti ecclesiastici, si evitò di giocarla in una battaglia campale, di esito incerto, bensì si decise di stancare l’assediante, per il quale il problema degli approvvigionamenti cominciò presto a farsi più grave che per gli assediati. Si aggiunsero piogge autunnali, allagamenti dell’Amo, il pericolo di vedersi tagliata un’eventuale ritirata, per cui, nella notte fra il 30 e il 31 ottobre (1312), dopo sei settimane invano spese, l’imperatore tolse l’assedio, né i Fiorentini osarono attaccarlo durante la ritirata né nei due mesi e mezzo in cui si trattenne nel contado, conducendo azioni più di guerriglia che di guerra contro gli sparsi castelli dei Fiorentini verso la Valdelsa. Svernò a Poggibonsi per poi tornare a Pisa (10 marzo 1313).
L’imperatore rimaneva ancor sempre in Toscana, ma per Firenze il nembo poteva dirsi scomparso anche perché, avendo accettato re Roberto la carica di capitano generale della lega guelfa, il conflitto si veniva spostando fra il re e l’imperatore, principalmente. Per questo l’imperatore veniva reclamando nuove forze dalla Germania e apriva contro re Roberto, considerato ribelle all’autorità imperiale, un processo che lo condannava alla pena capitale (26 aprile 1313). Fra molte altre ragioni, di equilibrio interno fra magnati e popolani, ci fu anche questa, l’aperto conflitto fra l’Angiò e il Lussemburghese, per cui Firenze, sacrificando « pro tempore » la propria autonomia, conferì a Roberto d’Angiò (maggio 1313) la signoria della città per cinque anni (in realtà durò 8 anni e mezzo, oltre la morte di Dante), accettando il vicario che egli vi avrebbe nominato in luogo del podestà finora eletto dalla città. Nel fatto, fu anche abolito il capitanato del popolo, ciò che caratterizza questa signoria angioina come benevola principalmente verso il ceto magnatizio e grasso borghese, anche se non furono aboliti gli Ordinamenti di Giustizia. Il 10 agosto 1313 Enrico VII usciva da Pisa per una spedizione non contro Firenze, ma contro Roberto d’Angiò nel Mezzogiorno: l’obiettivo Firenze rientrava in secondo piano, sarebbe stato ripreso, se l’impresa contro il nemico oramai principale fosse riuscita. Non riuscì: la morte colse l’imperatore a Buonconvento, il 24 agosto 1313. I seguaci ghibellini italiani si dispersero; le milizie, tedesche principalmente, tornarono ai loro paesi, salvo un certo numero che si mise al servizio dei Pisani.
Per Firenze, l’incubo era finito. Per quanto presto risorgessero pericoli per Firenze guelfa e nuove possibilità di un predominio ghibellino, non consta, documentariamente, che questi ulteriori eventi si ripercuotessero nell’animo dell’Alighieri a destarvi nuove speranze. Il suo sogno politico era tramontato con l’alto Arrigo (Far. XVII 82). Dopo la scomparsa di lui non è attestabile un interesse di Dante per le vicende fiorentine, benché sia difficile escluderlo in assoluto. Tuttavia, per completezza, è il caso di accennare a queste ulteriori vicende. Intanto, sia pure in scala minore, riapparve per Firenze un pericolo ghibellino nella persona di Uguccione della Faggiuola, che Pisa, rimasta esposta alle offese dei guelfi trionfanti in Toscana, si affrettò (20 settembre 1313), poche settimane dopo la scomparsa dell’imperatore, a nominare suo capitano di guerra, podestà e capitano del popolo, praticamente signore. Sulle prime una larga parte dei Pisani sarebbe stata incline a fare la pace con re Roberto, che il papa aveva nominato (marzo 1314) vicario dell’Impero, allora vacante, per l’Italia. Ma Uguccione si oppose alla pace, nella quale subodorava una diminuzione dei suoi poteri signorili, mentre fec
e pace con Lucca (aprile 1314), con una manifesta punta antifiorentina. Una pace che non resse, anche per le atroci rivalità fra i Lucchesi, delle quali Uguccione si valse per conquistare, con poca difficoltà, la città tradizionalmente nemica di Pisa (14 giugno 1314), e farsene, di fatto, signore. L’unione Pisa-Lucca sotto insegna ghibellina era motivo di forte preoccupazione per Firenze, guelfa, che aumentò quando Uguccione tentò, con un colpo di sorpresa, fallito tuttavia, d’impadronirsi anche di Pistoia (10 dicembre 1314) e strinse alleanze di ampio giro con signori ghibellini dell’alta Italia, gli Scaligeri di Verona e i Bonacolsi di Mantova, oltre che con i più irriducibili ghibellini del contado fiorentino, quali i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini. La reazione guelfa era piuttosto fiacca, la rete delle alleanze poco efficiente, mentre Uguccione si faceva sempre più minaccioso, nella primavera del 1315 stringendo da presso la città. Finalmente re Roberto si rese conto che la sua posizione di signore e protettore di Firenze gl’imponeva di uscire dall’inazione: e al fratello Pietro, conte di Eboli, che già era a Firenze, mandò rinforzi sotto il comando dell’altro fratello, Filippo, principe di Taranto, e il figlio di lui, Carlo di Acaia. Ma questi ragguardevoli rinforzi non impedirono che i Fiorentini fossero battuti molto duramente da Uguccione a Montecatini (29 agosto 1315). Rimasero sul campo due principi angioini e molti dei maggiorenti guelfi di Firenze; e assai più caddero prigionieri. Fu una vera rotta per i Fiorentini, com’era avvenuto a Montaperti, e la disfatta, rapidamente sfruttata dal vincitore, avrebbe potuto portare a un rivolgimento analogo a quello del 1260. Ma nulla avvenne di questo. Uguccione rimase inattivo, o quasi, dopo la vittoria. L’unione sotto uno stesso capo-parte di Pisa a Lucca, secolarmente rivali, era innaturale, o almeno molto difficile da mantenersi; e già questa era una palla al piede per Uguccione, che proprio in Lucca vide nascere e crescere di potenza colui che l’avrebbe sbalzato di sella, Castruccio Castracani. Tutti e due ghibellini, si trovarono in campo avverso, perché dopo la doppia elezione a re dei Romani di chi dovesse essere il successore di Enrico VII, l’uno, Uguccione, parteggiò per Ludovico il Bavaro, l’altro, Castruccio, per Federico d’Austria, dal quale ebbe il titolo di vicario imperiale per un territorio piuttosto impreciso, ma, all’ingrosso, comprendente la diocesi di Luni-Sarzana. Uguccione, un forestiero tanto a Pisa che a Lucca (era originariamente un piccolo feudatario dell’Appennino aretino-marchigiano) si era tirato addosso l’odio dei gruppi già dominanti nelle due città. Così (aprile 1316) le perse contemporaneamente entrambe, e non pare per intesa corsa fra le due città. Alcuni mesi dopo era profugo alla cotte di Cangrande della Scala a Verona, dove non è escluso che potesse incontrarsi con Dante. A Lucca s’impose il lucchese Castruccio col titolo di « capitano e difensore della parte imperiale «, di fatto, di signore, titoli e funzioni che gli furono varie volte riconosciuti dai Lucchesi, fino a quello (26 aprile 1320) di capitano generale e signore, che tenne fino alla morte.
Certamente la dissoluzione dell’unione ghibellina Lucca-Pisa rappresentava un alleggerimento per la situazione di Firenze, ma rimaneva il fatto che Lucca, tradizionalmente guelfa, era ora nelle mani di un giovane capo ghibellino (aveva 35 anni) dalle vaste ambizioni. Le quali per ora non si manifestarono, perché il momento non era opportuno. Era generale un senso di stanchezza dopo tante lotte, spesso inconcludenti. In questo clima fu stipulata la pace fra re Roberto e Pisa (12 agosto 1316) a cui seguì (12 maggio 1317), dopo lunghissime trattative, una pace generale fra le città toscane, includente anche i rispettivi fuorusciti, ma, per Firenze, non i fuorusciti Bianchi e ghibellini. Gli anni che seguirono, fino alla morte di Dante, furono, insolitamente, anni, sostanzialmente, di pace nei rapporti fra le città toscane, anche se, internamente nelle città, ribollivano ancora, sotto la superficie, i vecchi rancori. Ma oramai i protagonisti della lotta, Bianchi e Neri, erano scomparsi o stavano scomparendo; gli stessi nomi di Bianchi e di Neri andranno presto in desuetudine, rimarranno solo quelli di guelfi e di ghibellini a tingere di sanguigno ancora secoli di storia italiana.
E. Sestan, in Enciclopedia dantesca, II,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1970