Spiegazione della peosia “Alla luna” di Giacomo Leopardi

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Testo

graziosa luna, io mi rammento                 1
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.            5

Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna.
 E pur mi giova                10
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore.
 Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,                  15
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Parafrasi

O graziosa luna, mi ricordo che, un anno fa, venivo pieno di angoscia su questo colle a contemplarti e che anche allora, come adesso, tu stavi sospesa su quella selva che rischiari interamente. Ma a causa del pianto che sgorgava dalle ciglia ai miei occhi il tuo volto appariva annebbiato e tremulo, perché la mia vita era dolorosa, e lo è ancora, né dà segno di volere cambiare, o mia cara luna. Eppure mi dà sollievo il ricordare, e il contare gli anni della mia sofferenza. Oh come giunge gradito nell’età giovanile, quando la speranza ha ancora dinanzi a sé un lungo cammino e la memoria si lascia dietro un tratto breve, il ricordo del passato, benché esso sia stato triste e il dolore perduri ancora!

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Alla luna è una delle liriche dei Canti di Giacomo Leopardi, parte della sezione “piccoli idilli” o “primi idilli”, scritta a Recanati presumibilmente nel 1819, quando il poeta ha 21 anni. Composta da endecasillabi liberi, si tratta di un’opera molto significativa perché vi troviamo un tema che sarà assai frequente nella lirica leopardiana: il ricordo (il titolo originario della poesia era, infatti, La ricordanza). L’opera si apre con un’apostrofe alla luna (v. 1, «O graziosa luna»), amica e confidente degli affanni del poeta. A distanza di un anno (v. 2, «or volge l’anno») Leopardi ritorna nuovamente sulla sommità del Monte Tabor (un colle che si trova a sud di Recanati, lo stesso “ermo colle” de L’infinito) per ammirare la luna, di cui descrive non solo la bellezza estetica, ma anche le qualità “morali”: al primo verso, infatti, la luna è definita come “graziosa” (i.e. piena di grazia) e più avanti (al v. 10) come “diletta” (i.e. che si ama teneramente) Davanti allo spettacolo offerto dalla luna, che rischiara la selva sottostante con una luce ovattata e lattiginosa, il poeta cerca, in una solitudine che ci ricorda quella del Petrarca, di trovare consolazione ai suoi travagli interiori, pur consapevole che neanche la luna potrà dargli sollievo. Se i primi cinque versi ci raccontano la dimensione spaziale, nella restante parte della lirica il protagonista è il tempo, che nonostante il suo scorrere non porta sollievo alle sofferenze del poeta, ancora travagliato dal dolore, proprio come lo era un anno addietro, quando la vista della luna gli era impedita dalle lacrime (vv. 6-9, «ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / Il tuo volto apparia, che travagliosa / Era mia vita: ed è, nè cangia stile […]»). La parte narrativa del componimento termina al decimo verso, e da qui ha inizio quella teorico-filosofica, dove Leopardi sviluppa una tematica che sarà molto frequente sia nello Zibaldone, sia nelle sue opere della maturità: si tratta, come già accennato, della tematica del ricordo, che assume una sfumatura completamente diversa per via dell’aggiunta di due versi in un periodo successivo. Nella stesura originaria, infatti, mancano i versi 13 e 14, che verranno aggiunti da Leopardi poco prima della sua morte, con una correzione a penna nell’edizione napoletana dei Canti. Grazie a questa aggiunta, che vuole sottolineare la differenza fra il suo sentimento più maturo e quello giovanile del 1819, tutto il finale della poesia acquista una maggior respiro, profondità e complessità. Versione originaria «Oh come grato occorre Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!» Versione finale «Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!» In gioventù, ci dice il poeta per mezzo dell’aggiunta di quei due versi, la “rimembranza” di un’esperienza dolorosa del passato, pur essendo triste, è comunque gradita perché, da giovani, la memoria è breve (i.e. gli eventi del passato sono relativamente pochi) e la speranza è, invece, lunga (i.e. l’essere umano, essendo ancora giovane, sente di avere ancora molti anni davanti a sé, e quindi la possibilità di fare molte esperienze positive). Stile Nella lirica sono presenti molti arcaismi, che il poeta usa per nobilitare il componimento (v. 4: «pendevi», riferito alla luna; v. 11: «noverar l’etate», rievocare l’età), e molte parole che evocano in modo efficace una sensazione di indeterminatezza, che per questo motivo il poeta definisce “poeticissime”. Come ne L’infinito, anche in questa lirica sono presenti numerosi enjambement che, insieme al lessico, aiutano a creare quell’atmosfera di straniamento e indeterminatezza. Ricordiamo che l’enjambement è una figura retorica della sintassi che consiste in un’alterazione tra l’unità di verso e l’unità sintattica; in altre parole, si tratta del prolungamento del periodo logico oltre la pausa ritmica, quando due parole della stessa frase che dovrebbero stare saldamente unite, vengono spezzate tra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo. Ad esempio: vv. 1-2, «[…] io mi rammento / Che […]»; vv. 7-8, «[…] alle mie luci / Il tuo volto apparia […]» Modelli letterari I modelli letterari a cui si è ispirato Leopardi nella composizione di questo idillio sono molteplici, alcuni classici e altri più recenti. L’incipit, ad esempio, ricorda un idillio attribuito al poeta greco Mosco di Siracusa, che Leopardi aveva studiato nel 1815 (a 17 anni), e sul quale aveva scritto l’opera Discorso sopra Mosco. Riportiamo una delle strofe del poema di Mosco: «O caro amabil Espero, / […] Tu della luna argentea / sol cedi al chiaro splendere; / ascolta, astro carissimo, / ascolta i miei sospir.» Leopardi scrive: «O graziosa luna […] che tutta la rischiari […] O mia diletta luna […] Altra fonte letteraria che serve da spunto al poeta è quella petrarchesca. In tutto il testo di Alla luna, infatti, sono presenti riferimenti al Petrarca: ad esempio, al v. 2 («or volge l’anno», che ricorda le espressioni usate dal Petrarca per sottolineare il tempo trascorso dalla morte di Laura); al v. 7 («alle mie luci», è una metafora che ricorre spesso nel Canzoniere); e, ancora, al v. 9 («né cangia stile», tipica espressione petrarchesca).

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