Cerchio II. I lussuriosi. Paolo e Francesca.
Il canto si apre sullo scenario di un tribunale infernale. Lo presiede Minosse, mostro diabolico e grottesco, dalla coda lunghissima. Questa figura gigantesca e stolida nel SUO meccanico gesticolare, sbarra il passo ai dannati che numerosi affluiscono alla sua presenza: ascolta, pronuncia la sua sentenza con un numero indicato dai giri della coda poi allontana da sé le anime. Anch’egli, come altri custodi dell’inferno, compie il rituale ed inutile tentativo di respingere Dante; la presenza di quel vivo che viaggia sotto la protezione divina costituisce un affronto alle potenze diaboliche, una patente dimostrazione della loro impotenza. Comincia di qui a precisarsi l’immagine di un inferno, luogo di tormento, e di degradazione, in cui tutti, carcerati e carcerieri, sono coinvolti nello stesso processo di mortificazione, di alienazione da ciò che è umano sia che perdano il loro volto e ne assumano uno mostruoso, sia che si abbandonino irrazionalmente alla violenza.
Nell’inferno dantesco torturati e torturatori sono egualmente puniti, la giustizia divina li ha condannati a tormentare e a tormentarsi: i due momenti si unificano nella sofferenza che li costringe a ripetere per sempre il gesto che li deturpa e li imbestia. Di questa degradante condizione è un primo esempio Minosse, che continua ad esercitare l’ufficio di giudice che gli era proprio in terra ma in modi bestialmente grotteschi. Da Minosse lo sguardo si sposta sui dannati del secondo cerchio travolti da una bufera. È la prima volta che Dante incontra dannati rei di aver violato una norma morale. Questi primi peccatori sono i lussuriosi, che violarono il sesto o il nono comanda- mento, travolti dalla passione amorosa.
Tra i lussuriosi Dante individua personaggi di grande rilievo storico o culturale: Cleopatra, Semiramide, Achille, Elena, Tristano (per il poeta anche i personaggi della letteratura sono reali). Ma l’attenzione si ferma su una coppia di peccatori che procedono insieme: sono Paolo e Francesca, i due cognati uccisi dal marito di lei, Gianciotto. Appartenevano all’aristocrazia feudale di Romagna. Per la scarsa rilevanza politica del loro casato e per la natura dell’accusa (adulterio) i due non occupano nessuna pagina della storia della fine del Duecento: caso mai della cronaca. Però quelle due creature che, frustate dal vento, si aggirano per il cerchio agganciano l’attenzione di Dante per la serie di problemi morali che gli pongono. Il tema di fondo è quello dell’amore, del suo insorgere, sublimarsi, e decadere. Perché una creatura, cui l’amore conferisce un’aureola di purezza e di nobiltà, cade nel peccato dannandosi in eterno? Quali forze negative dissolvono la tendenza alla bellezza e alla purezza che è nell’amore? e quando scatta la forza contaminatrice? Francesca è creatura gentile per formazione familiare (aristocratica), per cultura (legge i testi della letteratura cortese), ha l’animo limpido: eppure, quasi senza avvedersene, in un momento di debolezza, si abbandona. Il problema è così tormentoso che alla fine dell’incontro con la donna di Rimini Dante sviene, in preda allo smarrimento. Questo smarrimento non si origina solo in presenza dei lussuriosi: simbolicamente, esso si rinnova davanti ad ogni forma di peccato, in presenza delle forze irrazionali, sfrenate, prepotenti che sono al fondo del peccato. A questo punto è bene ricordare che per l’uomo medievale il peccato aveva una gravità che nei secoli successivi è venuta meno; chi commetteva un peccato, collocato com’era in una cornice dove ogni evento e pensiero erano sottolineati dall’affermazione o negazione di Dio,, ne avvertiva le conseguenze sul piano ultraterreno e terreno: perdeva la salvezza dell’anima ed era condannato a ripetere per sempre il rituale che accompagna la pena; in terra, perdeva tutta la sua positività, poteva essere emarginato, scomunicato, privato del potere; smarriva insomma la sua fisionomia, esistenziale e sociale. Ora proprio questa concezione del peccato così gravida di conseguenze poneva il problema del come una creatura dotata di ragione fosse indotta alla eterna dannazione. Francesca e Paolo non sono due creature né istintuali né primitive: appartengono a una classe sociale fornita di potere e di cultura; i loro modelli di vita sono quelli della civiltà cortese: il decoro, la misura, lo svago, il valore, il garbo. Al peccato pervengono sotto la spinta di un libro che si divertono a leggere insieme; attorno alla loro vicenda si avverte l’atmosfera d’i un bel palazzo, degli interni di una casa signor. L’amore stesso cui fanno riferimento, sul piano concettuale si nutre di ideali nobili. Eppure proprio in questa forma d’amore è la radice del loro peccato. Sostenevano i teorici dell’amore cortese che l’amore è forza nobilitante: l’innamorato conosce attraverso la devozione alla donna le vie della dignità e della perfezione. Però donna amata è sempre la donna dell’altro ed è qui uno dei temi di contrasto con la dottrina cristiana dell’amore nella sua espressione più rigorosa. Ma il punto di più radicale contrasto è nella concezione della donna amata come termine di perfezione: essa assorbe totalmente, in modi esclusivi l’animo di colui che ama, sicché questi vive tutto preso dalla contemplazione ora gioiosa ora tormentosa dell’amata. Tutto questo si colloca al cli qua e anche contro la religione che vuole che l’amore, profondo, totale, vero sia solo pe la divinità: anche per una creatura ma solo se questa si pone entro la legittimità religiosa. Nell’errore di sublimare una creatura terrena erano caduti i poeti della civiltà cavalleresco-cortese: vi era caduto anche Dante. L’episodio di Francesca per questa parte segna la condanna e il rifiuto di una concezione e di una letteratura amorosa in cui, dietro l’alibi di un sentimento che conosce i “dolci pensier e i dolci sospiri”, si nasconde l’insurrezione dei sensi, il peccato, l’adulterio. Posto tra la forza tumultuosa delle passioni e la ferma consapevolezza della ragione, Dante nel momento in cui sceglie a sua guida Virgilio reseca da sé i miti dell’amore (Francesca), della grandezza terrena (Farinata), valori che rischiano sempre di precipitare nel disvalore quando l’uomo ripudia quel volto nel quale si ripete l’immagine di Dio. Certo, nulla ci vieta sul piano storico di affermare che l’amore cortese di cui si fa convinta e convincente protagonista Francesca, ebbe il merito di respingere l’amore comandato dai genitori, il matrimonio combinato sopra la testa dei due sposi, e quello egualmente notevole della rivendicazione dell’autenticità del sentimento: — anche Dante aderì a quest’esigenza come provano le sue opere giovanili; però, come oggi noi non siamo disposti a concedere certificati di serietà a un amore che isoli due creature e le allontani dalla società, dai problemi della società, e l’amore intendiamo come una risposta alle sollecitazioni sociali data da due persone che istituiscono un complesso rapporto affettivo e ogni altro amore diciamo forma di evasione, di istintualità, così per il Dante della Commedia l’amore non poteva essere che un modo di inserirsi nel quadro di civiltà che su Cristo costruisce l’immagine dell’uomo. Resta però, il problema dell’insorgenza di un elemento turbativo della vita morale e delle conseguenze ad esso connesse: su questo elemento di rottura scatta l’episodio di Francesca che non è giocato sulla celebrazione dell’amore istintivo e sensuale, prepotente ed irriducibile, e neanche su quello della moralistica condanna. Il canto di Francesca è insieme il canto dell’amore, concepito come dolcezza e come peccato, e della pietà, concepita com
e comprensione della fragilità umana e come trasalimento della coscienza appena ridestata. Questo canto dove, dall’apertura già impostata sul tema del dolore sino alla fosca conclusione, amore e pietà si urtano e si avvicendano dialetticamente senza tregua: drammatica dicotomia (felicità peccaminosa e tragico castigo) da cin traggono la loro intima giustificazione il lugubre paesaggio, le lacrime terribili e brucianti delle anime colpevoli, travolte da un vento rovinoso e implacabile, la turbata angoscia del poeta che ha letto per la prima volta ben addentro nel cuore umano, ne ha decifrato l’intimo segreto (i trepidi sogni, gli accesi slanci, gli irreflessivi abbandoni), ha infine commisurato il dolce e prepotente delirio della passione con la ferma e irrevocabile sentenza della giustizia divina (L. Caretti).